Dalton Trumbo, un comunista allo specchio (rotto).

L’eminente Conservapedia, enciclopedia onnicomprensiva on line dei cattolici integralisti, ci informa che Dalton Trumbo fu uno sceneggiatore, comunista, membro della Hollywood Ten: la famigerata lista di proscrizione – registi e sceneggiatori condannati e oscurati, in quanto antiamericani, dall’accolita del senatore McCarthy – che fu anche una sorta di associazione di categoria, megafono capace di denunciare ai media mondiali l’attentato ai diritti costituzionali, di pensiero, voto, associazione, impunemente perpetrato nella patria dell’Occidente libero.

Proprio a Dalton Trumbo è dedicata la puntata numero 23 delLo Specchio Rotto, che potrete ascoltare domani alle ore 18.00 su RKO Radio. Dikotomiko vi vuole bene, pertanto, piuttosto che condannarvi all’ascolto di una puntata lunga due ore, abbiamo preferito limitarci nella durata, continuando ad eviscerare la storia e le storie in questo spazio. Quanto segue è insomma una sorta di contenuto extra, che potete leggere (anche) dopo l’ascolto del podcast.

Si è parlato di una Deep Hollywood, o di una Lost Hollywood, con riferimento agli anni in cui Trumbo ha lavorato da sceneggiatore di contrabbando, uncredited o sotto falso nome; si è ipotizzato che senza gli inquisitori la storia del cinema avrebbe preso direzioni diverse, ancor più radiose. Elucubrazioni, pippe mentali, che disconoscono il vero driver del cinema commerciale di quegli anni e di sempre, cioè le majors e le case di produzione, per le quali gli sceneggiatori, a centinaia, erano un bene fungibile da inserire in catena di montaggio, con ben poco margine di autonomia di scrittura. Paradossalmente , è stata una benedizione che Trumbo abbia agito nell’ombra, esplorando negli anni della latitanza nominale (1947/1960) la gamma completa dei generi, gangster movie, noir, sci fi, western, camuffando da prodotti minori opere ad elevatissimo coefficiente di sovversione, sempre seminali per il cinema a venire, spesso ancor oggi insuperate.

Mezzo minuto dopo l’interrogatorio subito da Trumbo ad opera della Commissione sulla Attività Anti Americane (HUAC), si fanno vivi i King Brothers, con la stessa tempestività dei venditori di ombrelli alle prime gocce di pioggia. Dopo un’onesta carriera nel contrabbando, si buttarono a capofitto nella produzione cinematografica: una volta tastatone il successo – e i guadagni – decisero di proseguire da indipendenti. Se diventarono in poco tempo i sovrani assoluti del cinema di serie B, il merito fu proprio di Dalton Trumbo, al quale si rivolsero non certo per affinità politiche: da blacklisted, il cachet dello scrittore si abbassò di molto. La decennale collaborazione fu (forse) inaugurata – prima ancora che da La Sanguinaria – da Violenza (The Gangster, 1947), ufficialmente scritto soltanto da Daniel Fuchs, l’autore del racconto da cui è tratto. Barry Sullivan è Shubunka, un gangster con la faccia sfregiata e gli occhi da bimbo implorante. Il suo piccolo regno è Neptune Beach (una sorta di versione distopica di Coney Island), il suo pavido partner possiede una gelateria che è anche la location di gran parte del film, con una galleria di avventori e lavoranti molto accurata. Geloso fino alla paranoia della sua donna, per la quale spende tutti i suoi guadagni, Shubunka perde di vista gli affari e non si accorge che un clan rivale sta per spodestarlo. Finirà ovviamente male, sotto la pioggia battente, solo e rassegnato. In questo film sono tutti traditori di tutti, regna un cinismo incontrastato sin dalle prime battute in voice-over di Shubunka: “Non sono un ipocrita. So che tutto quello che ho fatto è marcio e viscido. So cosa pensa la gente di me. Che differenza fa? Cosa me ne importa? Ho una cicatrice, si. Capita di farsi male, quando lotti per uscire dalle fogne”. Sono indizi rivelatori della mano di D.T.? Forse si, forse no. Dall’interrogatorio di Trumbo all’uscita del film passa poco più di un mese, forse troppo poco per scrivere un film; forse no, conoscendo i ritmi di lavoro di Dalton. Il mistero resta.

Nel 1951 Trumbo lavora in incognito per il maestro Joseph Losey, scrivendo a 4 mani con Hugo Butler la sceneggiatura di Sciacalli nell’ombra. Protagonista è un bad cop, un cattivo poliziotto, probabilmente il primo motherfucker in divisa del cinema. Giocatore di football mancato, abusa della sua funzione per spiare e concupire una ricca languidissima signora, moglie annoiata di uno speaker radiofonico notturno. Il piano è semplice, puro American Dream: assassinio del marito travestito da incidente, non concordato con la fedifraga, matrimonio con quella divenuta vedova inconsolabile, vita da nababbi ad libitum, nella più totale impunità. Qualcosa ovviamente va storto, nella fattispecie anzi è uno spermatozoo che va dritto dove non dovrebbe, e la donna resta incinta durante uno degli incontri furtivi preomicidio, poi ovviamente negati davanti al giudice inquirente. I due negletti sono costretti così a fuggire dal loro bengodi ed a rifugiarsi nella clandestinità di una città fantasma nel deserto del Mojave, sulla polverosa frontiera con il Messico, dove la bimba nascerà e porterà con sé la rovina del maledetto ex poliziotto, tradito dalla neo mamma e dall’ostetrico per il quale era già pronto un bel cappotto di piombo. E’ un film di Losey, spregiudicato, cattivo, magnetico, prende gli archetipi americani e li rovescia impunemente, schierando cattivi contro più cattivi, stigmatizzando la colpevole ingenuità di una società bigotta, avida e pruriginosa. Per questo film lo stesso Losey sarà indagato dalla HCUA, e costretto all’esilio in Gran Bretagna.

Dello stesso anno è Ho amato un fuorilegge. Una versione più spietata, febbricitante e nera di Ore Disperate, che uscirà però solo nel 1955. L’ultimo film con John Garfield, che morirà meno di un anno dopo. Uno dei migliori noir di tutti i tempi, e anche uno dei film più infestati di “comunisti” (compreso, paradossalmente, Guy Endore che fece da prestanome a Dalton Trumbo) usciti durante l’era maccartista, praticamente il demonio agli occhi della HCUA. Dal regista John Barry ai tre sceneggiatori, da Norman Lloyd (nel film è il complice di Garfield) a Selena Royle (la mamma), a uno dei produttori, per finire ovviamente con John Garfield e Dalton Trumbo. Tutti professionalmente sterminati o quasi dalla HCUA. E’ probabile che sia stato proprio Garfield a sponsorizzare la penna affilata di Trumbo, immediatamente riconoscibile dai dialoghi al vetriolo, dalle figure femminili mai banali, e dalla ricorrente figura dell’uomo solo in lotta contro il sistema, anche se in salsa noir. Nick (Garfield) si sveglia (sudato, suderà per tutto il film) da un incubo e ne finisce in un altro: sua madre, perfida e alcolizzata, che lo maltratta e lo schiaffeggia ricoprendolo di insulti. Esce e accetta di partecipare ad una rapina che finisce male, malissimo, con la morte di uno sbirro. Mentre inizia la caccia all’uomo, Nick si nasconde in un’affollatissima piscina pubblica, dove fa colpo sull’ingenua – anti-femme fatale, letale suo malgrado – Peggy (Shelley Winters), che lo fa entrare in casa. Tutta la famiglia è presa in ostaggio, e le cose ovviamente andranno malissimo per Nick, che finisce ammazzato, di faccia nell’acqua sporca di un canale di scolo, in un finale perfetto. E’ un’immagine che, da sola, spiega un genere, ed è infatti ricorrente in molti articoli, oltre a troneggiare sulla copertina del libro Film Noir di Andrew Spicer. La trama – classica, lineare, perfetta – è la superficie, sotto la quale la penna di Trumbo evidenzia la solitudine del protagonista: unica vera caratteristica che lo distingue dagli ostaggi, causa principale del suo comportamento criminale. La regia di John Berry amplifica la tensione e la paranoia, in un beffardo gioco di specchi (e ombre) con la condizione da braccato che un po’ tutti i presenti sul set vivevano nella realtà.

Di ben altro tenore e spessore registico è lo sci –fi RX-M Destinazione Luna (1950) di Kurt Neumann, tedesco trapiantato ad Hollywood, meglio noto come regista del successivo L’Esperimento del dottor K. Trumbo scrive con lo pseudonimo I.A. Block e deve fare in fretta, il film viene realizzato in 3 settimane per urgenze di botteghino. E’ la prima volta che si parla di una missione spaziale alla conquista della Luna: un equipaggio di scienziati in abbigliamento improvvidamente casual, 4 uomini e una donna, in una navicella con oblò grandi grandi da cui guardare la Terra, poi il satellite, poi i meteoriti, poi ancora Marte, dove arrivano a causa di problemi nella gestione dei razzi propulsori. Il Pianeta Rosso è in realtà un deserto postatomico, con tracce di antiche evolutissime civiltà dissolte da guerre marziane, popolato da trogloditi lanciasassi perniciosissimi. I 5 vengono decimati, i 3 superstiti prendono la via del ritorno ma la benzina è finita, così, prima di schiantarsi, la bella e brava scienziata – Ripley ante litteram – , abbracciata ad un compagno di viaggio di fresca infatuazione, detta alla radio il suo monito pacifista da make love not war (“ Earth has to know what we saw, and the mistake we all made”). Fantascienza filantropica, umanista al pari del successivo Ultimatum alla Terra. Se il film soffre nella resa spettacolare per la povertà di effetti speciali e il montaggio precipitoso, ancor più prezioso è il finissimo lavoro di scrittura di Trumbo, nelle relazioni tra i sessi, nella convivenza forzata dentro l’angusta navicella, nel cerare un meccanismo di scatole cinesi in cui i protagonisti si muovono e agiscono come in un teatro, con il pubblico di primo livello già nel film (i giornalisti, riuniti nella base di lancio), quello di secondo livello in sala a guardare.

Corte Marziale (1955) è una strana creatura, dal vestito patriottico e dall’animo ribelle: è la storia del generale Mitchell, aviatore dalla carriera impeccabile, che dopo la prima guerra mondiale denuncia pubblicamente il pessimo stato in cui versa l’aeronautica, esasperato dai continui incidenti mortali capitati ai suoi uomini. Per lui ci sarà la corte marziale: il processo occupa la seconda parte del film quasi per intero, ed è anche la parte migliore. Mitchell è un compassato Gary Cooper, il suo accusatore un grande Rod Steiger. Dirige  con astuto cerchiobottismo la volpe Otto Preminger, e siamo ben lontani dalle tematiche anti-guerra di E Johnny Prese il Fucile: questo film è sì una rivendicazione di libertà e giustizia, ma dall’impianto molto conservatore. E non poteva essere altrimenti vista la reale vicenda dalla quale è tratto. La sceneggiatura è chiaramente frutto di un lavoro di squadra, e non del solo Trumbo, che comunque riesce a ìmprimere il suo marchio sottolineando l’eterno concetto del “ribellarsi è giusto”, a costo di pagarne le conseguenze in prima persona, a costo di sfidare l’ordine costituito. E se a farlo è la faccia gentile ma moralmente inattaccabile di Gary Cooper, il messaggio arriva a chiunque. Le dinamiche nell’angusto tribunale militare (uno stanzone che sembra un freddo semiinterrato, e che la regia sibillina di Preminger riesce a far apparire minaccioso e luciferino), l’ottusità della corte che non vuole sentire ragioni e motivazioni dell’accusato, sono chiari riferimenti alle audizioni davanti alla Commissione. A Mitchell/Cooper viene impedito di spiegare la causa del suo gesto di insubordinazione – proprio come a Trumbo viene impedito di fare una dichiarazione che esuli dalle secche domande/accuse.

Il motivo dell’uditorio era già presente in Sciacalli Nell’Ombra, con i protagonisti a testimoniare davanti alla giuria sulla morte dello speaker cornuto, si direbbe che nei film del periodo sommerso Trumbo riversi la sua legittima fobia della gogna mediatica e penale cui è stato sottoposto. Il tribunale brechtiano ritorna prepotente anche in La sanguinaria (1949), capolavoro noir e del cinema di ogni tempo. Il protagonista è un (not so)bad boy, ex marine, un Forrest Gump dal grilletto facile, ossessionato dalle armi da fuoco sin dalla più tenera età: non si tratta di istinto omicida, si tratta di feticismo, di adorazione sessuale a-morale e istintiva per pistole e fucili, con annesso trauma per l’uccisione incosciente di un pulcino. Passione che non è solipsistica ma condivisa da una Calamity Jane circense, Virago, e tra i due è amore folle, è avant-Bonnie e Clide, La Rabbia Giovane, Kalifornia, Natural Born Killers, rapine on the road per denaro facile, con la stampa alle calcagna. Accade però che l’amazzone abbia irresistibili impulsi omicidi, che all’ennesimo colpo non riesca a trattenersi e ci scappa il morto, anzi due. L’apocalisse finale si compie in una situazione onirica, acqua e canne e nebbia, lei che spara ai poliziotti alla cieca, lui che fa quel che deve contro l’amata e poi si vota al martirio, affinchè l’ordine torni costituito. 86 minuti bastano a Trumbo – pseudonimo Millard Kaufmann – e al regista J. Lewis per distruggere il sistema sociale statunitense, sotto le mentite spoglie di una femmina folle e di un amore disperato mettono in scena il crollo della provincia onesta, l’avvento dei media assetati di sangue, il martirio delle coscienze dei bambini sacrificati alle lobby delle armi. Raramente si è osato tanto, con risultati così elevati.

Sfida alla città (1956). La rapida ascesa e la devastante caduta di un politico corrotto e tracotante, in un film che si inserisce nella lista dei migliori titoli che raccontano il rapporto tra mafia e politica. Storia ricca di subplot e dalla struttura complessa, un tipo di script che richiede necessariamente tante scene brevi, evitando così allo scrittore il compito di doverle approfondire una per una, snellendo di conseguenza i tempi della stesura. Per uno dotato di inventiva e fantasia come Trumbo, era il lavoro ideale da portare avanti, magari in contemporanea con altre quattro sceneggiature. Matt Brady (il volto noir di John Payne) è un ufficiale decorato di ritorno a casa dopo la prima guerra: dopo la trionfale marcia accolta da applausi e bandierine per le strade della città, iniziano i guai. Matt è egoista, litiga con tutti e non ha interessi, riesce a rovinare anche il rapporto con la fidanzata. Più per assenza di alternative che per vocazione, finisce per seguire le orme di suo fratello maggiore, il politico più influente della città. Ma il potere porta guai, intrighi, sospetti, e tanta solitudine. Mentre vaga per le strade ubriaco, dopo una rissa spettacolare, sposa Lorry, una sconosciuta incontrata per caso scambiata per una prostituta, che si rivelerà il personaggio più interessante del film: Trumbo conferisce più risalto al pessimo comportamento di Brady nei confronti di quest’ultima che alle sue malefatte politiche. Ed è sempre Lorry a pronunciare le parole più affilate mentre Brady si avvicina al crollo: “se tu dovessi morire solo in questa stanza nel bel mezzo della notte, non c’è una sola creatura al mondo che potrà dire di aver perso qualcosa”. 

La fine sarà causata dal tradimento del suo miglior amico: ancora una volta è la vita reale ad ispirare Trumbo, che aveva visto i suoi amici e colleghi – a cominciare da Edward Dmytryk – denunciare altri amici e colleghi alla commissione.