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In un mondo distratto, la musica diventa un canale di denuncia fondamentale: i nuovi singoli dei System OF A Down.

In un mondo distratto, la musica diventa un canale di denuncia fondamentale: i nuovi  singoli dei System OF A Down.

Era il lontano 2005 quando i System Of A Down lasciarono al mondo l’ultimo atto di creazione, precisamente con la pubblicazione di Hypnotize, proprio nel novembre di quell’anno. Quell’ultimo album fu un grande successo, ciononostante la band si sciolse nel 2006, per poi riunirsi nel 2010. Dalla reunion è seguita la sola attività live, ma nessuna registrazione. Una guerra è riuscita a riunire una delle band più rappresentative dell’alternative metal della fine degli anni ’90. Dopo aver visto l’Azerbaigian iniziare un conflitto con l’Armenia a settembre, i musicisti, tutti di origine armena, hanno messo da parte i disguidi che li portarono allo scioglimento anni prima. Tra i motivi dello scioglimento c’era, oltre a controversie inerenti al processo creativo dei brani tra Serj Tankian (voce) e il suo fratellastro Daron Malakian (chitarra, voce), anche una lieve incongruenza politica tra John Dolmayan (batteria), dichiaratamente pro Trump, e Serj Tankian, che più volte ha espresso la sua repulsione nei confronti della politica dello stesso.

Nessuno credeva più che questo momento sarebbe arrivato, ci eravamo rassegnati alla fine di un’era, alla fine della creazione di quelle parole così pungenti, di quelle urla folli ed estremamente amalgamate ai ritmi melodici e ai temi politici, simbolo caratterizzante dei loro brani e di tutta la loro carriera, accontentandoci dei concerti, unico momento di catarsi, in cui l’ascoltatore e il creatore si mescolavano. Ma ieri 6 novembre, come un fulmine a ciel sereno, a tirarci su dalla desolazione di un periodo storico desertico, dal terreno così arido, soprattutto per la musica, ecco che i System Of A Down tornano dopo ben 15 anni, a parlarci, a renderci partecipi di situazioni che senza di loro sarebbero passate quasi inosservate e a soddisfare il nostro bisogno di ascoltare musica che lasci il segno, pubblicando un nuovo doppio singolo, formato da due brani.

“Ho mandato un messaggio agli altri tre ragazzi e ho detto, ‘Indipendentemente dai vostri sentimenti reciproci e dal passato, dobbiamo mettere tutto da parte e entrare in studio e creare una canzone per la nostra gente per attirare l’attenzione sulla situazione e galvanizzare le forze del bene in tutto il mondo” (Dolomayan).

“Protect The Land”, questo il titolo di uno dei due singoli, ma anche esplicazione dell’intento della band: “noi siamo qui per proteggere la nostra terra, per proteggere la nostra cultura e per proteggere la nostra nazione”, dichiarano, tra le altre cose, in un post su Instagram. È stato Malakian ad inviare agli altri membri del gruppo il brano. La canzone era destinata, in realtà, all’album successivo del suo attuale gruppo, Scars on Broadway. La traccia si apre con un riff di chitarra, forse troppo pacato rispetto ai ritmi a cui siamo abituati. Poi cominciano le parole. Pungenti. Cosa faremmo se qualcuno ci cacciasse dalla nostra terra? “Resterai e prenderai posizione?”. È sicuramente un brano diverso dai soliti SOAD, è molto più coerente con le linee seguite dai Scars on Broadway, per i quali era stato pensato.

“Genocidal Humanoidz” è invece il titolo del secondo brano e Serj Tankian, il frontman del gruppo, scrive: ”I regimi corrotti di Aliyev in Azerbaijan ed Erfogan in Turchia non vogliono solo prendersi quelle terre, ma stanno commettendo atti di genocidio con impunità. Scommettono su un mondo troppo distratto da Covid, elezioni e proteste per accorgersi delle loro atrocità”. In realtà, questo è un brano a cui avevano precedentemente lavorato, quando qualche anno fa Malakian (chitarra), Dolmayan (batteria) e Odadjjan (basso) quando si incontrarono per una jam session, da cui nacquero diverse canzoni. Questa risultò essere la meglio riuscita. Il progetto saltò per altri motivi, ma fortunatamente il brano è stato recuperato. Durante l’ascolto ci troviamo a combattere il diavolo. L’aria che respiriamo ci riporta ai SOAD che conosciamo, sentiamo indiscutibilmente il richiamo ai brani caratterizzanti della band.

“Probabilmente siamo l’unica rock band che ha dei governi come nemici, l’unica rock band che è in guerra, ho scritto queste canzoni per sostenere il morale delle nostre truppe e degli armeni in tutto il mondo”.

Queste le parole di Daron Malakian, quando ha presentato al pubblico e alla stampa internazionale i due nuovi brani. Entrambe le canzoni sono state partorite esclusivamente per attirare l’attenzione sulla guerra perpetrata in Artsakh e Armenia, la loro patria, e non anticipano un nuovo album, come tutti speravamo, ma è solo una denuncia sociale.

“Non siamo tornati per fare arte o business, questo è attivismo”.

Non tutti godono della libertà di espressione, soprattutto in paesi in cui c’è profonda disinformazione e silenzio tra due dittature che continuano a farsi guerra tra loro. Ma in America, per fortuna, si ha la possibilità di dar voce alla verità e di porre l’attenzione su problematiche anch’esse parte della nostra realtà globale. “Questo non è il momento di chiudere gli occhi. Come SOAD, questa è stata un’incredibile occasione per mettere tutto da parte e parlare della nostra nazione, come quattro ragazzi armeni”.

La ribellione, la denuncia politica e la partecipazione sociale sono da sempre parte integrante della fervida anima ribollente del gruppo. Tra le peculiarità che li contraddistinguono c’è, per prima cosa, la comune condizione di essere discendenti di superstiti del genocidio armeno del 1915, tema ricorrente in molti brani. Il loro stile è senza dubbio il loro biglietto da visita, possiedono numerose influenze stilistiche e soprattutto utilizzano spesso motivi musicali ispirati alle musiche tradizionali della nativa Armenia. Oltre a questo, come abbiamo già ribadito, non restano inosservati il loro impegno sociale e politico. Si potrebbe dire che abbiano creato un vero e proprio fenomeno musicale e politico già dagli esordi, in cui si distinguevano per le loro posizioni anti-establishment e contro l’amministrazione di George W. Bush, ma anche per l’ironia intrinseca delle loro composizioni, e, non ultima, anche per la loro grande tecnica. Dunque, che cosa ci saremmo dovuti aspettare? La ribellione è nel loro DNA.

Dolmayan ricorda che vedere le immagini della guerra gli ha dato il voltastomaco. «Ero furioso, ma mi sentivo impotente. Ho pensato a come dovevano sentirsi i miei antenati durante il genocidio».

«Lo possiamo fare solo noi, non ci sono altre grosse rock band armene», dice Malakian. «Non ci sono grandi celebrities armene disposte a fare qualcosa. È un nostro dovere. Siamo tornati insieme perché il nostro Paese ne ha bisogno, non necessariamente perché siamo eccitati di fare una canzone dei System of a Down. La nostra gente aveva bisogno di noi».

In ultimo, i due nuovi brani sono entrambi disponibili per l’acquisto nella loro pagina ufficiale, dove il ricavato andrà poi all’ArmeniaFound. Anche i fondi dei preordini della nuova collezione di merchandising verranno poi utilizzati per fornire aiuti necessari e forniture di base per le persone colpite da questi atti orribili. La band invita, quindi, a scaricare le canzoni come atto di beneficenza, indipendentemente dai sentimenti legati al ritorno del gruppo. Nel messaggio su Instagram concludono scrivendo che la musica e i testi parlano da soli e che in questo momento hanno bisogno che la gente parli per Artasakh.

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